Dialogo tra Enzo D’Angelo e Giuseppe Cruciani*, con commento di M.G. Ciardi Duprè**, Aula magna, palazzo Fenzi, Firenze, dal dibattito del 06/12/1996. 2ª Conferenza Internazionale sul Restauro
CRUCIANI – Questa Conferenza può avere un effetto unificante?
D’ANGELO – Il miglior auspicio è di riuscire a favorire una coesistenza più efficace tra quanti si occupano di conservazione e tutela, con l’incremento dell’attenzione e delle energie. Non si tratta di attenuare la vivacità del dibattito ma di mantenerla costante. La società si cerca continuamente e variamente nell’arte, nella cultura e nell’ambiente. Per questo bisogna preservare quanto è considerato parte del patrimonio, ma senza confondere la conservazione con il conservatorismo, favorendo la ricerca e senza vagheggiare un modello unico o l’unificazione dei punti di vista. Soltanto consentendo la continuità nel pluralismo culturale, col rispetto della vita storica dell’opera, del monumento e dell’ambiente, con le rispettive stratificazioni, è possibile evitare forzature, confusioni e impoverimenti. Ovviamente i princìpi generali vanno calibrati nei diversi settori e nelle varie scale. Un quadro è ben diverso da un edificio come questo lo è da una piazza o da un centro storico. I passaggi di scala possono sconvolgere i migliori propositi e tante contraddizioni, evidenti nelle città storiche, come si è capito da tempo, non possono e non devono essere affrontate se non con molto pragmatismo. Dobbiamo dimenticare quei surrogati teorici che con la giustificazione dell’accresciuta sensibilità dei moderni, con l’ampliamento degli ambiti e delle scale della conservazione, hanno preteso ad ogni costo di affrontare con diagnosi e terapie unificate patologie diverse in scale e soggetti diversi. “Essere moderni significa sapere ciò che non è più possibile”, diceva Roland Barthes. Troppo spesso le potenzialità espressive dell’opera sono state ridotte a una sola misera realtà che non consente più di recuperarle, né visivamente né mentalmente. Se la funzione può contribuire alla sopravvivenza dell’opera, soprattutto quando questa è stata progettata per funzionare – com’è per un edificio, un libro o un’arma – ne può altresì determinare la fine, quando la si impone a pittura, scultura, arti decorative o, con povertà progettuale, a tutto il resto. Nelle città storiche, invece, l’assenza di funzioni è sempre fatale. Dobbiamo ribadire senza incertezze le prerogative del documento e della sua capacità testimoniale che la scienza, da un giorno all’altro, può decuplicare. Grazie agli archivi parrocchiali con la storia di due famiglie, si è appena individuato il gene che, ammalandosi, provoca il morbo di Alzheimer. Chissà cosa si potrà leggere in futuro incrociando vecchi e nuovi dati, se avremo l’accortezza di preservare le fonti documentarie…
CRUCIANI – Come dire che l’istanza storica è da privilegiare rispetto all’istanza estetica?
D’ANGELO – Credo che il problema non si possa più porre in questi termini. Tale antitesi appartiene ormai alla storia della conservazione e del restauro ma la sua vera origine si trova in un impianto dialettico idealistico fin troppo iterato. Intanto chiariamo che un’opera, una fabbrica o un sito, una volta riconosciuti di rilevante interesse storico-artistico, sono soggetti da rispettare per nulla candidati alle verifiche pratiche di ipotesi critiche e teoriche, per loro natura né stabili né universali.
CRUCIANI – Parli di pura conservazione e di restauro conservativo?
D’ANGELO – Non parlerei più di conservazione pura o impura, ovvero di posizioni contrarie o favorevoli alla coesistenza dell’antico col nuovo, ma di cultura progettuale della conservazione. L’antagonismo e la competizione tra ipotesi estreme, al di là di alcune brillanti sintesi linguistiche, di norma non consentono le scelte più ragionevoli per il soggetto da salvaguardare, che ha sempre sue specifiche peculiarità. E poi molte ipotesi formali, estetiche se vuoi, oggi sono verificabili virtualmente. I più noti siti archeologici di Roma sono stati così ricostruiti; in qualche modo sono visibili e percorribili, ma chi si sognerebbe di ricostruirli veramente?
CRUCIANI – Sarà a causa delle troppe distruzioni ma spesso si torna a parlare di ricostruzione a 1’idéntique.
D’ANGELO – Prima di procedere, dai più semplici lavori di manutenzione ai più eccitanti esercizi di scrittura anteriore, l’operatore troverebbe molto aiuto nella rilettura del borgesiano “Pierre Menard, autore del «Chisciotte»”. Un racconto brevissimo che consente la lettura frequente.
CRUCIANI – Cosa intendi quando parli di “cultura progettuale della conservazione” l’aggiornamento professionale, la scientificità o una teorizzazione del caso per caso?
D’ANGELO – Nessuna cultura progredisce senza la scienza. Per conservare sempre meglio l’architettura storica, ad esempio, è indispensabile sviluppare la diagnostica e il consolidamento. Ma la conservazione non è una scienza, il suo procedere può essere parzialmente scientifizzato nelle esperienze di laboratorio e di cantiere. La consapevolezza, il confronto, il dialogo e le scelte presuppongono però una cultura ampia ed un comportamento basato sull’etica. Per conservare e tramandare è necessaria una cultura fortemente etica del progetto per l’uomo, dal più piccolo manufatto all’ambiente costruito e formalizzato. Il progetto di conservazione non deve presentare una esecuzione interventista ma una meditata proposta per mantenere l’opera o la fabbrica storica in vita il più a lungo possibile, in armonia con la sua identità e, per quanto si può, col presente se ciò contribuisce a preservarla. Nel segno della continuità, in rapporto dialettico con la storia, teoricamente il progetto può arrivare a includere il nuovo come può prevedere una semplice manutenzione o il non intervento. La casistica con tutte le sue singolarità è un riferimento fondamentale ma, la casualità e la mancanza dei presupposti culturali ed etici, non consentono di costituire princìpi e regole, sebbene si parli da tempo di orientamenti e metodologie del “caso per caso”. Sarebbe come dover reinventare la scienza medica al manifestarsi di ogni nuova patologia. La specificità dei casi invece avvalora l’originalità e la pragmaticità del progetto e, di conseguenza, la sua necessità.
CIARDI DUPRE’ – Intanto posso dire di un’esigenza che viene fuori da tante meditazioni sul mio campo, però anche da questo convegno che ha visto la convergenza di tanti aspetti del restauro. Anche solo stando fermi a questo pomeriggio siamo passati dai problemi sismici a quelli di ingegneria e del libro. Poi, se fossero intervenuti al dibattito e spero che arrivino, si sarebbero anche affrontati i problemi di archeologia medievale, quindi per dire la vastità del problema e la necessità di affrontare sempre nuovi campi. Abbiamo visto il problema degli insediamenti giordani, che è un problema di archeologia ma anche diverso da tanti altri aspetti della ricerca archeologica e del restauro di conservazione. Problemi di natura metodologica, problemi di approfondimento filosofico di quello che è il tema del restauro e della conservazione che poi sono anche tutte e due brutte parole ma in confronto alla ricchezza che sotto di loro si nasconde, di microstorie, di macrostorie, quindi io intanto espongo la mia idea, sento l’esigenza di proseguire su questa strada a conclusione di queste tre giornate, che è di approfondimento di tanti campi. Ci sono tante scelte da operare, io auspico che nella terza Conferenza sul restauro si dia tanto spazio alle arti minori.
*Coordinatore della sessione Aspetti metodologici della conservazione e del restauro, 06/12/1996
**Coordinatore della sessione Formazione e didattica dei beni culturali, 04/12/1996
da Atti della 2ª Conferenza Internazionale sul Restauro, 1996
Fonti:
rivista echos: www.echos.fi.it
www.conferenzaconservazione.it