Dialogo tra Enzo D’Angelo e Antonio Landolfi*, Aula magna, palazzo Fenzi, Firenze, 06.12.1996. Sessione: Storia, restauro e storiografia artistica. 2ª Conferenza Internazionale sul Restauro

ANTONIO LANDOLFIIl passato è indispensabile, ma come guardarlo oggi?

ENZO D’ANGELOL’eredità ottocentesca del passato come luogo nostalgico della fantasia con relative ambivalenze è ancora presente, trasversalmente, in tutti gli strati della società occidentale. E non si tratta solo del mancato aggiornamento, di per sé non facile, di gran parte dei contemporanei con i problemi dell’arte, dell’estetica e del pensiero del nostro secolo. Se, com’è ovvio, non si può auspicare una lettura univoca del passato né la sua riproposizione al posto del presente, è sempre vivo l’«Eros della lontananza», citando Klages, con la sua manipolabilità. Il passato e i monumenti sono stati alla base dell’enfasi dei nazionalismi e degli adeguamenti funzionalistici con tante manipolazioni ideologiche.

ANTONIO LANDOLFI – Vedi il funzionalismo vicino alle dittature?

ENZO D’ANGELO – Parzialmente se ci riferiamo al Movimento Moderno. Ma non possiamo dimenticarci le perdite causate dagli adeguamenti alla funzionalità simbolica e celebrativa dei regimi forti – da Napoleone III a Ceausescu con gli sventramenti dei centri storici, le realizzazioni di viali di rappresentanza, i ripristini e i progetti di avallo culturale con le ricerche di testimonianze classiche a danno di quelle barocche e medievali. Come non possiamo dimenticare le ambiguità della funzionalità universale dello stesso Movimento Moderno, con l’utopia razionalistica di un’architettura depositaria di uguaglianza e verità, capace di unificare i popoli. Anche in questo caso si è trattato di un’ideologia che, come le dittature, finiva per ignorare stratificazioni e diversità cioè la storia, le identità e le culture, riducendo con un salto di scala totalizzante le istanze di rinnovamento all’uniformizzazione.                                                                                                                Così, anche con premesse contrapposte, spesso si sono sacrificati alle esigenze di una civiltà industriale globale, protesa a ottimizzare la sua produzione, presenze significative e manufatti del passato e del presente, distruggendoli o adeguandoli con opportune mistificazioni. Nelle città storiche non si contano le mascherature interne ed esterne di superfici, materiali e strutture. Il panorama comprende poi le ricostruzioni post-belliche non sempre indiscutibili, il cosiddetto sviluppo della speculazione edilizia, la distruzione di molti paesaggi … perché stupirsi del disorientamento diffuso, dell’estraneazione e della fuga nel passato?

ANTONIO LANDOLFI – Per questa via non si giustifica la nostalgia? Che senso può avere l’idea di passato come meta di una fuga?

ENZO D’ANGELO – Senza dimenticare che, prima del suo dissolversi come patologia e della sua erosione semantica, la nostalgia ha una storia clinica parallela a quella della città e dell’urbanistica moderna e come sia difficile col senno di poi sostenere che il problema non c’era, ovviamente avremo molte perplessità di fronte al rimpianto di quanto non si è mai conosciuto. Ma se c’è un desir de rien sartriano, c’è pure il disagio di fronte all’irreversibilità del tempo che la perdita di testimonianze e l’assenza di storia acuiscono. Non importa poi se la nostalgia sia una variante della melancholia o il suo ultimo stadio. Penso all’angelo della storia benjaminiano che guarda le rovine del passato ma, con le ali bloccate, è spinto dalla tempesta verso il futuro. Nello spazio-tempo di nessuno in cui rischiamo di scoprirci sospesi, mentre pure precipitiamo nel futuro, dobbiamo accettare il mutamento guardando indietro ma senza rimpianti. La fuga è auspicabile se con essa intendiamo la capacità di reagire ed avviare risposte; di formulare, come in musica, un paradigma tematico in cui coesistono voci diverse o, geometricamente, il luogo d’incontro delle proiezioni. Non lo è se per fuga si intende l’autoesclusione, l’abiura al presente o alla sua storicità.

ANTONIO LANDOLFI – Quando la fuga conduce in un luogo o in un tempo del passato non ci porta all’utopia e quindi a una ideologia?

ENZO D’ANGELO – Oggi si tende piuttosto a fuggire sempre più nel futuro con la realtà virtuale, l’ipercomunicabilità e la simultaneità, mettendo in secondo piano il testo originale, il documento e perfino la narratività, cioè la scansione del testo letterario, artistico e architettonico, che consente di leggerlo e memorizzarlo. Le conquiste della tecnologia ci allontanano dall’oggettività e dalla fisicità del presente, ideologizzando un tempo da venire e svalutando la praticabilità dell’hic et nunc. Dall’utilitarismo alla monofunzionalità: un processo di riduzione assoluta determinato dalla ideologizzazione della scienza e della tecnologia, che infine esclude i princìpi, l’attività critica e comunicativa. Così l’ha già descritto molto bene Habermas negli anni ‘60 con la sua critica dell’ideologia.                                          Per quanto riguarda la consecutività di utopia e ideologia, se le sappiamo complementari sappiamo pure come la prima, con tutta la sua debolezza statistica sia l’alternativa più forte alla seconda ed anzi, proprio in ragione di questa forza, abbia fornito legittimazione alle imposizioni ideologiche. Di entrambe non accettiamo l’autoritarismo e, comunque, vanno considerati vari livelli di questi concetti, tanto per l’uso linguistico che per quello storico o filosofico. L’ideologia, che per Condillac ed i sensisti definiva la formazione delle idee, si è ormai ridotta, almeno in Europa, a designarne la cristallizzazione. Al contrario dell’uso manipolatorio o dell’enfasi, dell’esclusivismo o del razzismo, è positiva la capacità di idealizzare e di aggregare con idealità. Dell’utopia, al di là del suo potere di fascinazione sociale ed intellettuale, non possiamo ignorare le capacità immaginative e liberatorie. E quando Ricoeur le riconosce la funzione di mantenere lo scarto tra speranza e tradizione, poiché «Immaginare il non-luogo è mantenere aperto il campo del possibile», ci riporta al «principio speranza» e alla relativa ontologia di Ernst Bloch. L’«utopia concreta» blochiana ci propone le potenzialità aristoteliche della materia con la «fame di forme», un progresso fatto di pluralità e differenze e una natura «che non è un passato, ma l’area fabbricabile», invitandoci al progetto o, intanto, al metaprogetto di una perifrasi per cui direi che il passato è una forma naturale della cultura rispetto alla forma organizzata della storia. Rimane aperto, peraltro, il problema dei modelli storiografici dopo la crisi delle teorie unitarie e della filosofia della storia.

ANTONIO LANDOLFI – La crisi della filosofia della storia di stampo idealistico si è evidenziata ormai da molti decenni. Essa risale alla rivoluzione storiografica delle Annales. In Italia, il rovesciamento della posizione neoidealistica culminò, già agli inizi degli anni ‘60, nel dibattito suscitato dal saggio di Eugenio Garin su La filosofia come sapere storico. Tutto questo rivolgimento, con le mutazioni di rotta che ha determinato negli indirizzi storiografici, ha tuttavia stimolato la ricerca storiografica ed in particolar modo la ricerca specializzata. Una volta interrotto e superato il monismo neoidealistico e quello che era divenuto il suo pendant, ovverosia il monismo materialistico marxiano, la ricerca storiografica è riuscita a dispiegare le sue energie indirizzandosi a vari obiettivi, articolandosi e ramificandosi in campi specifici, dall’economia al costume, dalla linguistica alle tradizioni popolari, dalla scienza all’arte e al paesaggio; dalle scienze sociali e dalle istituzioni al cinema, alla fotografia ed alle arti visive. Questo nuovo percorso della ricerca storiografica, annunciato già tra le due guerre dalla riflessione di Huizinga, si ripromette – come ha scritto il Falco – di dire «come sono andate le cose» senza rapirci «nell’atmosfera rarefatta della speculazione (…) in modo che il linguaggio dei fatti sia allo stesso tempo il linguaggio delle idee». In tutto questo orientamento, riecheggia la lezione del Vico, nella Scienza nuova, per cui la storia altro non è che comprensione «della propria guisa per cui nacquero le cose». L’impulso dato dal nuovo orientamento alla ricerca storiografica specifica, pur lasciando aperti infiniti problemi di metodo e di senso, di relazione tra specificità e universalità, ha aperto la via al lavoro storiografico in molteplici campi fra i quali risulta prioritario quello dello scenario reale, visuale, urbano ed artistico nel quale si concretizzarono culture, modi di vita, e si svolsero gli eventi nei singoli momenti della storia

*Coordinatore della sessione Storia, restauro e storiografia artistica

 

da Atti della 2ª Conferenza Internazionale sul Restauro, 1996

Fonti:

rivista echos: www.echos.fi.it

www.conferenzaconservazione.it

Enzo D'Angelo e Antonio Landolfi

 

 

 

 

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