Dal dibattito della sessione Teorie e prassi nella conservazione dei beni architettonici, Aula magna, Università degli studi di Firenze, 04.12.1996, Coordinatore Marco Dezzi Bardeschi 2ᵃ Conferenza Internazionale sul Restauro

Mario Dalla Costa, Elio Garzillo, Paolo Fancelli, Giuliano De Marinis, José Cornelio Da Silva, Carlo Blasi

DALLA COSTA* – Due parole per commentare e per fare io stesso una riflessione su quello che ho sentito dai colleghi questa mattina e dai quali è venuta una ulteriore convinzione, credo da parte nostra che ci occupiamo di problemi della conservazione, di problemi del restauro, circa l’opportunità di questa inevitabile, ineludibile considerazione degli aspetti della conservazione del costruito. Dezzi Bardeschi nella sua lunga relazione che ha fatto il punto storico, l’aggiornamento storico della conservazione e del restauro, ebbene si è svolta poi un’ulteriore momento di precisazione sugli aspetti della conservazione da parte di Amedeo Bellini che ha, per noi che conosciamo i suoi scritti e le su convinzioni, certamente non è che ci abbia stupito ma certamente credo che possa avere dato un incoraggiamento soprattutto ai giovani che vediamo abbastanza numerosi. Direi che la puntualizzazione di Torsello su quello che è il problema dell’interpretazione del testo culturale, mi pare piuttosto fondamentale, poiché a mio avviso mette in guardia sulla possibilità di inciampare nel momento in cui si mette mano al documento, all’architettura, e cioè il discorso dell’interpretazione esposto a mio avviso in modo così corretto e così preciso. L’amico Fancelli ha evidenziato un aspetto che secondo me è molto interessante, anche questo aspetto lo conosciamo da lungo tempo e sappiamo quanto possa avere di validità nella comprensione dei fenomeni della conservazione nel momento stesso in cui la conoscenza dell’oggetto architettonico viene fissata graficamente attraverso questo modo di rappresentare. Io però vorrei fare un’osservazione che per certi versi è generale. E’ generale per quanto riguarda quanto noi abbiamo sentito questa mattina e cioè questa responsabilità che noi, insegnando questa disciplina, abbiamo nei confronti dei giovani che vengono alle nostre lezioni numerosissimi; siamo a livelli di 250-300-350 quando le cose vanno abbastanza bene. Si riducono sensibilmente sotto un certo punto di vista quando noi operiamo nei laboratori secondo il nuovo ordinamento delle facoltà di architettura che prevede dei corsi di ordine teorico e poi un aspetto pratico al momento del laboratorio. Però ci troviamo comunque nel rapporto di 1 a 70 anche nei laboratori. Allora mi domando che cosa noi dobbiamo fare di fronte a queste masse? Qual è la natura e se vogliamo anche i dettagli di questo messaggio che noi a un certo momento dobbiamo trasmettere. Trasmettere la natura del messaggio direi che può essere anche abbastanza facile. E’ nel momento in cui noi ci poniamo nell’ottica di trasmettere invece aspetti che vanno oltre a quello che è l’aspetto teorico, che ci troviamo veramente nelle difficoltà. E allora abbiamo bisogno di strumenti che siano di facile accessibilità e di facile comprensione. Questa facilità quindi ci porta inevitabilmente a dare delle indicazioni di progettazione della conservazione in termini direi sistematici e in termini molto sintetici, molto semplici, di estrema lettura. Questo credo che noi dobbiamo farlo tenendo conto che noi ci troviamo di fronte sì, anche, forse a qualche futuro studioso della disciplina che vorrà approfondire gli aspetti teorici e se vogliamo anche pratici della disciplina, ma ci troviamo prevalentemente di fronte a studenti che in parte vorranno affrontare il problema professionale. E noi sappiamo benissimo quanto sul piano professionale la presenza degli architetti tout court portino a travisare quelle che sono le nostre credenze nel restauro. Vediamo come purtroppo nel quotidiano, con questi interventi siano, come dire, travisati, travisino la realtà del costruito. Ebbene se questo come mi fa comprendere il collega qui alla mia sinistra, mi dice è un problema che esula dalla discussione di oggi io vorrei dire che (…) d’altra parte ho ragione anch’io, se è un capitolo di questa sessione di questo convegno, di questa conferenza che tratta nella specificità i problemi della didattica. Però siccome io non sono chiamato ad intervenire in questa sessione, mi permettevo di fare questa precisazione, che ritengo importante, necessaria e credo che prendendo spunto da quanto ho sentito questa mattina possa sentirmi autorizzato di farla. Chiedo scusa comunque se non ho compreso bene la ragione di questa missiva. Allora vorrei dire questo, che la semplificazione di quello che è il problema della progettazione della conservazione è un problema assai importante, assai importante e quindi necessita di una capacità di sintesi che noi dobbiamo trasmettere ai nostri allievi, per cui tutto quanto io sto in questo momento dicendo e precisando circa i problemi della sintetizzazione contrastano a mio avviso se non in tutto ma in parte con alcune cose che l’amico Fancelli ha fatto vedere questa mattina, cioè questa presentazione grafica realistica che sotto determinati punti di vista è ineccepibile ma sotto altri porterebbe lo studente ad una incapacità probabilmente interpretativa in quanto per arrivare ad una rappresentazione di questo tipo, cioè sotto una cultura estesissima non credo possiamo pretendere dai nostri studenti. Mi domando se a un certo momento noi possiamo in qualche modo supplire con (attraverso certo il rilevamento) il rilevamento più attento ai problemi del costruito e quindi del costruito con le sue deformazioni, ma con attraverso anche la rappresentazione del degrado. Mi domando se noi, allora, a questo punto non possiamo ricorrere alle rappresentazioni, al rilevamento magari fotometrico o fotografico da considerare un tutt’uno con il rilevamento geometrico dimensionale. A mio giudizio quindi il problema si pone in termini metodologici. Credo che il problema della metodologia si debba porre in termini di estrema chiarezza poiché è proprio dovendo trattare i nostri problemi. I nostri problemi dovendoli trasmettere ad un auditorio che è nuovo a determinati problemi ed anzi è portato a considerare il progetto del restauro, perché ha questa cultura l’allievo quando viene alle lezioni di restauro, ebbene è portato ad una cultura della progettazione ex-novo, più che ad una cultura della considerazione del costruito.

GARZILLO** – Forse non sono stato inteso nel brevissimo messaggio lapidario che avevo passato al professor Dalla Costa. Credo che siamo tutti perfettamente d’accordo con quello che ha detto. Un problema, il problema delle facoltà di architettura, è che lo studente di Torino o di Milano riceve proprio questo tipo di insegnamento. Gli studenti di Roma, anzi, di un certo corso dell’Università di Roma, ricevono degli input esattamente in senso opposto e contrario. Ecco, ho motivo di temere che questo nel tempo sarà foriero di conseguenze addirittura inimmaginabili, cioè la presenza di allievi di scuole del tutto incompatibili.

FANCELLI*** – Sarò lapidario a mia volta. Nei riguardi dell’amico Mario Dalla Costa, vorrei dire che egli ha ragione e torto insieme, nel senso che effettivamente gli elaborati grafici che ho mostrato, e che sono un po’ il vessillo della mia ricerca nel particolare settore, richiedono quella cultura, oltre ad una forte acribia analitica sull’opera, di cui parlava proprio il collega. Una cultura che non costituisce certo un dato di base diffuso negli allievi. Tuttavia, è anche vero che noi siamo dei docenti e che, appunto in quanto tali, siamo tenuti a svolgere l’arte della maieutica. Pertanto, in questo quadro, è nostro compito preciso, è nostro dovere morale indurre appassionatamente, coinvolgendoli, tali studenti a provarsi, a cimentarsi via via nell’impresa, a comprendere, ad interpretare, disegnandolo, l’oggetto, a restituirlo nei termini umanamente più veritieri ed aderenti. Ed è quanto io personalmente tento di conseguire e non ritengo di rappresentare un caso eccezionale. E lo ottengo già durante il Corso istituzionale, là dove le lauree comportano un affinamento ulteriore. Perciò, è vero che quel supporto culturale di fondo, di cui qui si discorre, è premessa indispensabile per poter procedere innanzi, ma è anche vero che se esso non è dato, può pur sempre essere conseguito nel tempo con l’attenzione progressiva, con l’approfondimento scalare, con il graduale apprendimento, con un fare sempre più consapevole, in grado di perfezionarsi continuamente.                                                                                                                              Certo, in tale quadro, i Corsi semestrali non sono precisamente idonei allo scopo, anche se, poi, va a finire che, in effetti, svolgiamo didattica seminariale per l’intero anno accademico, con poche interruzioni. A loro volta, i laboratori in aula, concepiti piuttosto per la progettazione del nuovo, per l’inventio, devono, invece, nel campo del restauro, essere condotti prevalentemente sul campo, vale a dire direttamente sull’opera o sulle opere prescelte per l’esercitazione. In ogni caso, nell’ambito di una didattica compressa, costrittiva ed irreggimentata, come quella prospettata nei laboratori per giunta semestrali, temo che potrei non conseguire più i risultati finora ottenuti, i quali richiedono tempi di maturazione indubbiamente più prolungati e comunque variabili da studente a studente, oltre che una maggiore autonomia intellettuale ed una maggiore assunzione di libera e matura responsabilità da parte dell’allievo.                                                                                                        Per quanto riguarda, infine, gli insegnamenti nella mia sede, cioè Roma, effettivamente, tra un docente e l’altro possono sussistere differenze d’impostazione anche notevoli. Tuttavia, alcuni fondamentali punti fermi ci accomunano, al di là di anche legittime e, talora, feconde diversità di approccio. Questi punti fermi consistono sinteticamente: nel privilegiare l’indagine diretta sull’oggetto, nel riguardare il monumento pur sempre con l’ottica dell’architetto-conservatore, nell’osservare il prodotto estetico (quando sia tale) nella sua formatività. Differenze d’impostazione più profonde, allora, sussistono tra l’insegnamento del Restauro a “La Sapienza”, piuttosto conservativo e talora critico-conservativo, rispetto a quello praticato alla III Università, nella quale ultima è dominante un’impostazione agli antipodi, quale quella ripristinatoria. Tali divergenze forti possono indubbiamente risultare fuorvianti e perniciose per la loro incidenza disorientante sugli allievi, quindi sui futuri architetti, ed anche in seno alle Soprintendenze. Questa è una preoccupazione non marginale, rispetto ad un problema che va posto in termini culturali con forza.

DE MARINIS**** – Ringrazio in primo luogo il professor Enzo D’Angelo che mi ha invitato a questo interessante incontro e, da archeologo calato in questa augusta assise soprattutto di architetti, volevo fare riferimento proprio alla relazione introduttiva dell’amico Dezzi Bardeschi nei riguardi di questo persistente e ricorrente problema tra gli aspetti storici oppure di reiterazione artistica (che io chiamerei meglio estetica) nel restauro. Devo dire che mi stupisco un po’ di sentire ancora in questo campo trattare di questo problema che, devo dire fortunatamente, nel restauro archeologico scientifico moderno è dato per superato da quarant’anni almeno. Che ci sia ancora qualcuno che si comporta in modo diverso non lo escludo, anzi è ben sicuro, però “esce dalle regole”, in quanto il restauro archeologico moderno è solo conservativo o conoscitivo o tutt’e due. Tutto quello che va al di fuori è una serie di operazioni che possiamo chiamare in tanti modi, possiamo chiamarla restituzione, ripristino, sono operazioni che si possono e si devono fare in alcuni casi, ma non più a scopo conoscitivo o conservativo ma al fine della fruizione, o per far capire e far conoscere il manufatto, sia esso oggetto mobile o monumento, al pubblico. Faccio un esempio. Se noi abbiamo un vaso o una scultura rotta in più pezzi, per lo studioso il più delle volte non c’è nessun bisogno di rincollarli e di rimontarli perché appartiene ad un classe ben precisa e ben determinata e lo studio può procedere lo stesso. E’ per il pubblico che non si può mettere il mucchietto di cocci in vetrina. Lo stesso vale per un monumento crollato, che molto spesso con il rilievo di scavo e una ricostruzione grafica potrebbe benissimo essere lasciato nelle condizioni in cui è. E’ chiaro, che sia pure con tutti gli ausili possibili dati oggi anche dalla multimedialità e dagli strumenti di questo tipo, non sempre però il monumento o il contesto risulterebbero ugualmente comprensibile per il pubblico, e allora bisogna fare delle scelte caso per caso. Caso emblematico per esempio è quello relativo o al riutilizzo o meno degli edifici teatrali o anfiteatrali antichi per gli spettacoli. E’ chiaro che, se si vuole questo riutilizzo, che avrà comunque ovviamente dei costi di degrado, ma che in qualche modo farà rivivere quel tipo di monumento nella sua funzione originaria (e questo è l’unico caso in campo archeologico perché per il resto appunto è un problema un po’ diverso da quello del restauro architettonico), allora a quel punto bisogna fare delle scelte precise in quanto allora sarà preferibile una “manomissione” mirata, una volta tanto, una volta sola, del monumento per metterlo in grado, con degli impianti fissi, di reggere l’allestimento scenico teatrale piuttosto che far finta di non fare nulla ma in realtà ogni anno, per fare e disfare il palcoscenico, per mettere e levare l’impianto elettrico eccetera, causare uno stillicidio di degrado molto maggiore. Ma, per tornare al discorso dell’oggettività del restauro archeologico, questa è data anche dal grandissimo ausilio che nell’ultimo ventennio o trentennio, ha dato l’approccio con altri tipi di scienze, con le cosiddette “scienze esatte”, in particolare la chimica e la fisica e conseguentemente anche gli studi archeometrici in generale, cioè la conoscenza delle metodologie e delle tecnologie antiche di fabbricazione. In questo caso, quindi, abbiamo l’aiuto di queste scienze cosiddette esatte per sapere per esempio dove fermarci con le puliture. Oggigiorno nel restauro scientifico archeologico non è l’estetica che dice dove fermarsi nell’intervento su certe patine del bronzo (al di là del fatto che alcuni, mi duole dirlo, scambiano patine per sudicio e viceversa); se si pulisce un oggetto di bronzo ci si ferma al punto in cui si raggiunge una “patina” cioè un prodotto di corrosione stabile della lega rameica, e questo di qualsiasi colore sia, anche se è diversa da un’altra zona dello stesso oggetto, perché non interessa e non deve interessare più se l’oggetto diventa tutto verde “bello” o tutto nero “bello” oppure viene a chiazze; viene dove la chimica e la fisica ci dicono di fermarsi. Questo almeno è quello che dovrebbe essere e, secondo me, è in questo modo che si possono superare queste periodiche “impasse” che però potranno sempre attivarsi quando si interverrà sull’opera d’arte come tale (o presunta tale), ma anche questo tipo di distinzione nel campo archeologico tende finalmente ad essere superato.

DEZZI BARDESCHI***** – Ringraziamo il soprintendente De Marinis. E’ chiaro che l’argomento del restauro archeologico da solo meriterebbe una tornata e penso che dovremmo metterla in programma. Però noi vorremmo tutti rallegrarci dell’oggettività e delle staccionate abbattute che separano il settore incerto dell’architettura da quello più scientifico del restauro archeologico. Credo però che dobbiamo segnalare e non nasconderci che c’è un fortissimo ritorno del rifacimento dall’architettonico all’archeologico che viene fatto prepotentemente ad uso dei soliti progettisti che escono dal consolidato statuto di archeologia tanto che il problema del castello di Heidelberg è nulla in confronto a tutti i castelli del centro Europa. Per non parlare degli stessi resti sacri della romanità che non sfuggono a queste attenzioni. Mi permetto anche di dire “per fortuna” che il pubblico degli interessati ai monumenti archeologici è un po’ cambiato. Quando noi visitiamo i siti archeologici in veste di turisti siamo forse più irritati che contenti delle messe in scena che ci vengono propinate e quindi anche qui c’è una didattica, che affronteremo nel pomeriggio, che sta fortemente mutando.

DA SILVA****** – Tutti questi temi mi interessano moltissimo e vorrei dire due cose che mi sembrano rilevanti. Per quanto riguarda la discussione nelle scuole è importante notare che non si sta parlando soltanto dell’Italia, perché quello che si fa in Italia e si discute in Italia influenza il pensiero di altre nazioni e dunque quando si sbaglia qui si sbaglia molte volte anche in altri posti. Poi c’è un’altra cosa che mi sembra debba attirare la nostra attenzione e cioè il fatto che si sta creando un mondo molto brutto, molto atomizzato, che non è legato, che non fa parte di un ecosistema civile, nel quale non è più possibile avere un legame con il passato e con i monumenti perché c’è un taglio netto. E dunque bisogna salvaguardare la possibilità di accedere alla cultura della conservazione.

BLASI******* – Giuliano De Marinis, per i beni archeologici, ha presentato un esempio interessante affermando che i vasi ritrovati vengono ricomposti e rincollati non per le esigenze di studio degli esperti, ma per poterli rendere visibili e comprensibili ai non esperti.            Nella conservazione dei beni architettonici esistono problemi simili, nel senso che è necessario rendere gli edifici utilizzabili con sicurezza. Ciò impone spesso di “rincollare” e consolidare i manufatti con interventi che nella prassi possono andare anche oltre a quanto sarebbe teoricamente sufficiente per conservarli.                                                                                                                                                            Credo che sia un fatto inevitabile, ma ritengo anche che gli scempi che si compiono in nome della sicurezza e della protezione antisismica siano in genere conseguenza dell’aver affidato i progetti a tecnici ed uffici di controllo non sufficientemente competenti nelle problematiche della conservazione ovvero dell’aver, con sufficienza, delegato ad esperti di altri settori disciplinari, esterni al “Restauro architettonico”, il restauro delle strutture.

DEZZI BARDESCHI***** – Ritengo che sia stata una mattinata positiva, densa per vari motivi, ricca di nuovi contributi sul piano teoretico, di riferimenti a fatti di cronaca e di storia allarmanti ma istruttivi e anche di sacro sdegno contro l’affollata schiera di mercanti nel tempio. Ancora ringrazio tutti i relatori che sono intervenuti nel dibattito e tutti coloro che hanno avuto la pazienza di ascoltarci

*Mario Dalla Costa, docente di Restauro, Politecnico di Torino

**Elio Garzillo, soprintendente Beni Ambientali e Architettonici di Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma

***Paolo Fancelli, docente di Restauro, Università La Sapienza, Roma

****Giuliano De Marinis, soprintendente Beni Archeologici delle Marche

*****Dezzi Bardeschi, docente di Restauro, Politecnico di Milano, Coordinatore delle sessione Teorie e prassi nella conservazione dei beni architettonici, 04/12/1996

******José Cornelio Da Silva, Università di Evora

*******Carlo Blasi, docente di Restauro, Università di Firenze

da Atti della 2ª Conferenza Internazionale sul Restauro, 1996

Fonti:

rivista echos: www.echos.fi.it

www.conferenzaconservazione.it

 

 

 

 

 

 

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